Da qui siamo partite nel piccolo gruppo.
Saremmo state in cinque. Se non fosse che due delle partecipanti assegnate alla stanza di Zoom assieme a noi, hanno abbandonato. Sì, non appena hanno capito che era arrivato il momento di moltiplicare il dialogo: era il nostro turno di parola.
Che sia opera di un retaggio questa scelta? O di una configurazione culturale, quella che sanziona gli errori, i punti di vista personali, le diversità espositive, gli interrogativi che ci si pone senza trovar risposta. O l’idea di dover manifestare una qualche competenza presunta. Tale da indurre a non esprimersi affatto in certi contesti.
Al di là di queste riflessioni, sorte in un secondo momento, proprio dalle considerazioni sulla paura di sbagliare siamo partite, sperimentata a scuola.
Chi lo racconta è una studentessa, ormai cresciuta, universitaria, che ricorda in modo vivido la paura del giudizio. Pur considerando infatti che “sbagliando s’impara” la sua esperienza riporta errori segnalati senza spiegazioni adeguate. E sarebbero state utili in virtù di un apprendimento. Parla anche di sguardi, quelli della disapprovazione, che talvolta segnano più delle parole.
Lo racconta anche una collega psicologa con esperienze educative nell’ambito sportivo, dove ha osservato la paura degli atleti di sbagliare e di mostrare l’errore.
A questo proposito sottolinea l’importanza, da parte di chi assume il ruolo educativo, di distogliere l’attenzione dall’errore per dirigerla verso ciò che chi apprende sa già fare. E verso ciò che può raggiungere ancora. Parla del valore di legittimare la difficoltà, riconoscerla per creare uno spazio di comprensione e considerazione dell’altro, dove possa concretizzarsi un apprendimento libero dalla paura di sbagliare.
L’altro lato della paura
Come accogli la paura e la gestisci può trasformare le esperienze in modi inattesi.
La paura di parlare in pubblico, del giudizio e di espormi è un limite per me. Decidere che quel limite posso superarlo con i tentativi e la pratica è educativo.
Chiara, la studentessa.
Questo per creare dei precedenti cui appellarsi nelle situazioni future. E lo ha superato di nuovo, qui con noi, quel limite facendosi portavoce del nostro dialogo, appena rientrate in plenaria. E’ diverso parlare di fronte a una trentina di persone sconosciute rispetto a farlo in un piccolo gruppo, anche se su Zoom. Ha aggiunto così un nuovo precedente cogliendo l’occasione.
Francesca, la collega psicologa, un tempo allenatrice, ricorda la paura di non riuscire a gestire gli atleti che andavano “fuori dalle righe” e non rispettavano le regole. La sua paura riguardava lo scontro che si aspettava per la diversa disposizione nei confronti della disciplina. Lei così ligia alle regole aveva difficoltà ad accogliere i ritardi e le scuse prodotte per non svolgere un esercizio. Questo si traduceva, i primi tempi della sua esperienza, nel rimprovero, nel richiamo e nell’attenzione rivolta a ciò che non andava fatto.
La paura dello scontro le ha permesso quindi di modificare il suo approccio, nella ricerca di relazioni che avessero modi di comprensione e di dialogo. Dare la possibilità all’altro di portare la propria versione e le motivazioni della trasgressione contribuisce a rimarcare la responsabilità senza colpevolizzare, porta all’incontro. Si passa attraverso la comprensione anziché lo scontro. Esso infatti inevitabilmente reitererebbe il mancato rispetto della regola e la distanza emotiva.
La vicinanza che si crea quando si assume che l’altro, se trasgredisce, lo fa per un motivo, genera anche un contesto di accoglienza relazionale capace di migliorare l’approccio all’impegno.
Ecco che cosa può fare la paura: diventa un segnale che permette di cercare e trovare nuove prospettive da cui guardare le soluzioni tentate e le possibilità.