Quali sono degli esempi che chiariscono la differenza tra inclusione e integrazione?
La dott.ssa Marci ha raccontato alcuni episodi che ha vissuto in prima persona, sottolineando come a scuola la categoria diagnostica venga spesso usata dagli stessi ragazzi per additare i compagni di classe. Ad esempio, il ragazzino con dsa (disturbo specifico dell’apprendimento) è visto dalla classe ‘come quello avvantaggiato’. E a volte sono gli stessi insegnanti a generare questi confronti, come quando si parla di verifiche facilitate. Oppure l’alunno con disabilità viene visto in classe come un peso e le insegnanti si chiedono: dove lo metto? – In fondo alla classe, così non disturba-.
Con il buon intento di voler includere, l’uso delle categorie rimarca una differenza.
Il patto della scarpa: in termini di inclusione, ad esempio, un’insegnante ha fatto togliere a tutti i ragazzi le scarpe, ha chiesto di riunirle in un mucchio, successivamente ogni ragazzino con le scarpe degli altri ha fatto una corsa. In tal modo i ragazzi hanno sperimentato cosa significhi, metaforicamente, indossare le scarpe di qualcun altro.
Ad ognuno le sue scarpe, ognuno con le proprie peculiarità.
Molte scuole parlano in maniera ideologica di inclusione, considerando lo stare in classe come inclusione. Quando serve ragionare in termini di obiettivi: dare un ruolo all’alunno che non sia esclusivamente quello del disabile. Ad esempio chiedergli di preparare, anche fuori dalla classe, qualcosa che poi è utile a tutto il gruppo classe: una mappa o un’esemplificazione dell’argomento che poi riporta ai compagni. Costruendo, in tal modo, uno strumento utilizzabile da tutti.
Ogni alunno ha competenze da offrire all’intero gruppo classe.