Io faccio parte di un coro. Sento tanta gente dire “io sono stonato come una campana” ma nessuno è stonato, è solo una questione di educazione ad ascoltare sé stessi mentre ascolti l’armonia.
Giuseppe, insegnante in istituti professionali
Se noi ragionassimo in questi termini, capiremmo che quel ragazzo ha delle vibrazioni sue, ha un suo modo di vedere le cose. Noi cerchiamo di imporre agli altri il nostro modo di vedere le cose.
Le suggestioni e le riflessioni che il professor Masoni ci ha offerto dialogando con Marta ed Emilio ci hanno catapultati nel ruolo di chi si osserva e si mette in discussione. Con sguardo critico Giuseppe, Sara, Sandro, Vania ed io abbiamo osservato gli altri, le altre e noi stessi: adulti -genitori, insegnanti, professioniste- che popolano le vite di ragazze e ragazzi. E come ben sintetizza Giuseppe abbiamo scorto due possibilità utili a costruire la scuola che verrà: l’ascolto e la scelta di non imporre necessariamente il proprio punto di vista.
L’ascolto
Se pensiamo che compito prioritario di chi educa non sia trasmettere informazioni, riempire crani vuoti, bensì trasmettere esperienza utile affinché bambini e bambine, ragazzi e ragazze possano autorealizzarsi, allora non possiamo che chieder loro quali siano le loro esigenze e i loro desideri. Possiamo offrire loro strumenti e poi fare un passo indietro e lasciare che ci stupiscano mostrandoci l’uso che ne vogliono fare. Affiancandoli nell’apprendere come ascoltare e ascoltarsi.
Io mi sono riciclato alla liuteria e uso gli strumenti che magari usa un falegname per fare una porta, sono gli stessi. Quel che cambia è l’uso che ne fai.
In questo senso una Scuola che ascolta può essere anche Scuola inclusiva e offrire a tutte e tutti la possibilità di tirar fuori quello che si ha, occupare un posto in cui sentirsi riconosciuti e valorizzati. Una Scuola quindi capace di riconoscere e accogliere le differenze, arricchendosi e modificando continuamente i propri confini. Per fare questo serve tenere in considerazione la voce dei molti attori in gioco: studenti e studentesse, ma anche le famiglie e il corpo docente stesso. In coro. Servirebbero classi non eccessivamente numerose, in modo da poter dedicare scambi specifici a ciascuno e stimolare interazioni a differenti geometrie. Servirebbe non barricarsi dietro etichette di giudizio (DSA, scapestrato, timida, scansafatiche, discalculico), ma anzi usare gli strumenti a disposizione (certificazioni comprese) per offrire maggiori opportunità ad ogni studente ed ogni studentessa.
Scegliere di non imporre il proprio punto di vista
“La definizione è potere” ci ha ricordato Masoni rifacendosi a Bauman. E troppo spesso gli adulti usano il loro potere per schiacciare ragazzi e ragazze all’interno di categorie che risultano eccessivamente strette per poter contenere tutta la vita, la creatività, i pensieri, le intenzioni, l’immaginazione, le storie, l’energia, i significati di cui quella singola persona è portatrice. Allora ci si chiede rispetto all’uso della retorica del trauma: cosa stiamo tagliando fuori? Cosa non vediamo quando definiamo bambini e bambine, ragazzi e ragazze come la generazione di studenti traumatizzati dalla quarantena? E ancora, come stanno vivendo le nostre affermazioni che descrivono e prescrivono loro il trauma da scuole chiuse? Quali altre letture possiamo costruire con loro? E quali altre storie ci possono narrare le loro stesse voci? Quali esperienze raccolte in questi mesi già ci parlano di altro?
La posizione dell’esperto o dell’esperta
Attraverso il dialogo abbiamo quindi mano a mano modificato le nostre vesti di insegnanti, genitori, adulti quali “esperti” della scuola. Il confronto e la partecipazione hanno progressivamente fatto emergere la necessità di mettere al centro i significati e i valori degli attori principali del contesto scolastico: studenti e studentesse. E’ proprio nel dialogo e nell’interazione che è infatti possibile rilevare i sistemi di credenze che il singolo possiede ad esempio rispetto alle etichette che gli “esperti” utilizzano. Il rischio che si può generare, come sottolineato dal dott. Masoni, è però quello di creare degli alibi agli alunni. Ingabbiati all’interno delle certificazioni che dovrebbero facilitarli, rischiano di identificarsi con queste etichette chiudendosi alla vastità delle possibilità. La posizione dell’esperto/a assume quindi una connotazione differente: partecipare e generare dialoghi che permettano di rilevare le esigenze dell’altro/a offrendo una visione nuova e differente non più della scuola ma CON la scuola.
E ci scopriamo curiose e curiosi di reincontrare studenti e studentesse e chiedere loro che titolo darebbero alle proprie esperienze.
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Le parole qui riportate sono frutto del Dialogo on-line e di appunti e riflessioni off-line condivise tra me e la dr.a Sara Passoni, psicologa e psicoterapeuta interazionista
…Il dialogo continua…