Parlando seguiamo passivamente consuetudini e tradizioni ufficialmente accettate. Parlando ci capiamo, grossomodo, grazie a un accordo tacito che riguarda il senso e il significato delle parole che usiamo. Questa è la caratteristica convenzionale del linguaggio che ne garantisce la funzione comunicativa, infatti se non ci fosse accordo sul senso dei termini che usiamo a poco servirebbe parlare.
A seconda poi di come e dove certe parole sono usate cambia il loro senso, il significato, le intenzioni con cui vengono pronunciate. Talvolta però, l’effetto che tali parole producono resta loro attaccato. Questo è il caso delle parole astratte che designano i moti dell’animo umano, le astrazioni che sono entrate a far parte dell’uso comune direttamente dal gergo specialistico degli esperti della psiche. Con riferimento particolare agli effetti duraturi di parole come depressione, trauma, burn out e tutti gli altri termini che vincolano la persona in una categoria che condizionerà poi la sua storia di vita, in modi imprevisti.
Oggi si abusa di parole tecniche a discapito di un linguaggio più semplice e descrittivo. Ci si attribuisce una competenza, così, avvalorata dalla condivisione, dall’uso e dalla diffusione di termini che sintetizzano astraendo. Si allontanano però dai vissuti personali mentre affibbiano previsioni infauste, che rischiano di avverarsi per suggestione e altri processi interattivi.
Questa è l’eventualità su cui abbiamo argomentato durante il secondo Dialogo InControluce, quello su “Agio e disagio nel tempo del distanziamento fisico” nel contesto didattico.
Compito assegnato ai gruppi in ritiro nelle stanze virtuali di Zoom, dopo l’avvio coinvolgente del Dott. Masoni, è stato quello di concordare e formulare una o più domande da porgli poi in chiusura.
Intimità
Pina, insegnante al liceo, ci ha confidato di come abbia sentito la didattica a distanza un ingresso nell’intimità della casa dell’altro, gradito o non gradito. Ospiti imposti, in casa altrui, dalla necessità di proseguire con la didattica nel contesto delle restrizioni per il contenimento del virus.
Alessandro, docente universitario, a sua volta ha percepito duramente il cambiamento di intimità nelle relazioni con gli studenti durante le sue lezioni. Si è trovato infatti coinvolto in monologhi di fronte a telecamere spente, lui che, prima, dava molto rilievo al coinvolgimento dialogico con gli studenti.
E così ci siamo trovati anche noi a confrontare alcune idee, preoccupazioni, dubbi ed emozioni nell’intimità virtuale di uno spazio privato. Questo è il contesto in cui i presenti hanno potuto raccontare in quale modo fossero coinvolti e interessati ai Dialoghi sulla scuola. E da quale parte del discorso di apertura fossero stati più colpiti.
Emozioni, fra consapevolezza e condivisione
Pina ha ricevuto sollievo dall’affermazione che noi non possiamo prevedere che cosa accadrà ai ragazzi, in quanto non sappiamo come interpretano certe situazioni e come si muoveranno poi. Infatti, lei ha sempre avuto la sensazione che i suoi alunni risentissero molto delle sue emozioni e del suo sentire. Per questo si è prodigata per rassicurarli e ha usato la didattica a distanza, non per portare avanti i programmi, “ma per stare insieme e dare senso a quello che stava accadendo come genere umano, come persone”.
Luana, psicologa e insegnante in formazione per la scuola dell’infanzia e primaria, gestisce un centro estivo. E’ particolarmente colpita quando i genitori fanno inferenze sulle emozioni dei propri figli sulla base dell’osservazione degli altri, piuttosto che del proprio stesso figlio. Nella sua esperienza ha colto emozioni di paura che il genitore attribuisce al figlio, proiettate spesso in modo inconsapevole. Si chiede come si possa aiutare un genitore a guardare e vedere i propri figli, senza attribuire loro timori che non hanno.
Alessandro ha sperimentato nella didattica a distanza un allontanamento dagli studenti e l’assenza del loro contributo alla costruzione di un sapere. Ha fatto lezioni completamente incentrate sul proprio sapere, su di sé, sulle proprie condizioni: “Aggravate dal fatto che IO mi sentivo traumatizzato, IO mi sentivo demotivato e persino depresso.” Dichiara il dubbio di usare questi termini a sproposito, come tutti coloro che attribuiscono a situazioni come questa, vissuta, potenziali traumatici.
Sottolinea, inoltre, come l’insegnamento sia una pratica improvvisata e appresa dall’esperienza, di cui non è prevista alcuna formazione iniziale, nell’ambito accademico. Si è resa ancora più ardua in questo contesto.
Imparare a insegnare
Bruna, sociologa, prima delle restrizioni gestiva dei laboratori nella scuola secondaria di primo grado e si affidava alle proprie competenze di studentessa per i metodi. Aveva cominciato a porsi il quesito su chi insegnasse ad insegnare, chi desse indicazioni agli insegnanti su come si gestisce la relazione con i ragazzi, al di là della materia insegnata.
Una parte dell’esposizione iniziale del dott. Masoni le ha richiamato questo pensiero, a proposito delle parole tecniche che si usano nel contesto scolastico senza conoscerne le sfumature e le possibili ricadute. Fa riferimento in particolare alle profezie che si autoavverano: “Come facciamo a separare i termini specifici dalla necessità di esprimere la percezione di quello che abbiamo intorno?”
Allude al difficile equilibrio di chi opera nell’ambito didattico, interagendo con ragazzi e colleghi, si trova a utilizzare termini che appartengono a un vocabolario diagnostico per comunicare situazioni che rischiano di aggravarsi proprio per l’utilizzo di tali termini.
Un filo conduttore
Pina si chiedeva in che modo le proprie emozioni influenzassero i ragazzi e si preoccupava di questo, Luana invece ha osservato come gli adulti proiettassero sui propri figli determinate emozioni, rischiando di renderle reali anche per loro. Mentre Alessandro si è sentito investito in prima persona da molte emozioni, estromesso dalle relazioni didattiche a causa delle reazioni degli studenti di fronte alla telecamera.
Emozioni difficili che ha nominato coi termini di uso comune, carichi di significati e conseguenze negative che possono complicare le situazioni. Bruna, infine, richiama un quesito che si era posta in un diverso contesto, diverso ma affine, che potrebbe fare al caso nostro trovando insieme una formulazione esaustiva, che riesca a tenere conto delle diverse prospettive portate in questa stanza virtuale.
Posto che usare un certo tipo di linguaggio contribuisce a creare situazioni critiche: per esempio, parlando di trauma attribuito a un ragazzo rischio di far sì che tutti i presenti nel contesto si comportino in modo da aspettarselo e ravvisino in ogni gesto o espressione i segni di allarme e indicatori di tale condizione. Quel ragazzo farà necessariamente qualche esperienza del trauma annunciato. Non solo, probabilmente, sarà esentato da molte attività quale diretta conseguenza del disagio presunto, indirizzando così il ragazzo verso la condizione temuta.
Come facciamo allora a parlare di certe emozioni senza passare l’idea di attribuire un disagio più che un sentimento mutevole legato a una particolare situazione, a un contesto, a una relazione o a una contingenza specifica? Possiamo liberarci degli effetti secondari di questi termini diagnostici che sono diventati di uso comune, quando si parla di emozioni?
Come descriviamo quello che ci succede senza usare termini che portano con sé altri significati e per questo trasformano le situazioni in qualcos’altro?
E soprattutto in quale situazione lo avete già fatto?
Altri linguaggi
Pina tutte le mattine quando i suoi alunni si connettevano per la lezione faceva loro trovare un sottofondo musicale. Inizialmente sceglieva lei in base all’estro del momento, poi anche gli alunni hanno cominciato a fare richieste, fino a che ogni classe ha individuato il proprio genere musicale per iniziare la giornata. Quest’attenzione è stata coniugata con una pratica che già svolgeva in presenza: la richiesta durante l’appello di un ‘voto emotivo’ per la condivisione dello stato d’animo dello studente, affermato accanto alla sua presenza.
Alessandro nota il modo in cui Pina si sia assunta la responsabilità della condizione emotiva dei propri studenti nell’esercizio della didattica, in primo luogo imponendosi di star bene, condividendo emozioni positive e ponendosi in ascolto. Sottolinea come la missione didattica universitaria sia probabilmente diversa. In questo contesto lui si è trovato, invece, a condividere un disagio, in una condizione che descrive come surreale, di fronte a schermi neri: “Mi chiederò quali possano essere le mie responsabilità di altro genere rispetto all’elaborazione di un pensiero critico” sui contenuti della materia insegnata, “ovviamente non si tratta solo di questo”.
La domanda
Esito di queste considerazioni è stata la formulazione di una domanda co-costruita attraverso piccoli passaggi progressivi:
Quali parole o quali strumenti possiamo utilizzare per renderci consapevoli e rendere consapevoli gli altri dei nostri stati d’animo, senza utilizzare termini che trasformino questi eventi in qualcos’altro?